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martedì 16 febbraio 2021

ROM : UN LUNGO VIAGGIO (di Morena Pedriali)

Mi ricordo, vagamente, da bambino, un carrozzone (una "Kampina") addossata "alla mura" del Cimitero di Monza. Dalla parte di Sant'Albino e San Damiano. Il Viale delle Industrie non esisteva ancora. Ci abitava una donna (Maria?) con due figlie. Facevano fiori di carta e impagliavano sedie. Forse facevano anche dei ricami e li vendevano in paese. Mia madre diceva che erano sfollate da Cassino, dopo i bombardamenti. Secondo lei non erano "zingare". Secondo me lo erano, eccome. Capelli neri e gonne lunghe.

Ricordo un organetto con un uomo e una donna e una scimmietta che, in cambio di una monetina ti consegnava un fogliettino, il "pianeta della fortuna".

Mi ricordo un circo minuscolo. Lo allestivano in fondo a Via Fieramosca, vicino a casa mia. Ci portavamo le nostre sedie. Il papà era mangiafuoco e uomo forzuto che spezzava delle catene gonfiando il torace. Un figlio e una figlia acrobati e un  pony che sapeva fare le somme computando con lo zoccolo!   

Poi mi ricordo, vagamente, di altri zingari che si fermavano al "campetto", dove ora c'è il "Sandamianello". Ferravano i cavalli. E la magia di un anziano che creava bacili di rame sbalzato col fuoco e la sabbia.

Leggete il brano sotto e magari, in futuro, ricordate le parole di Morena Pedriali quando incontrerete una donna Rom...    

Paolo Teruzzi

ps: se aveste ricordi o fotografie riguardanti queste storie a Sant'Albino e San Damiano fatemele avere! Grazie. 



Foto di Alberto Melis
















UN LUNGO VIAGGIO
Mia zia siede nella penombra, guarda le ore che scorrono sulla punta delle lancette, le taglia come fili di tenebra e le appiccica al cuore, le scalda nel sangue.
Ha due righe di fumo agli angoli degli occhi, dove le lacrime di settant'anni si sono raccolte, a volte canta una canzone sottovoce e dice che il mondo, per noi rom, è come i fondi del caffè. Dice che il mondo, per noi rom, si accumula sul fondo della tazza e quello che è importante è solo quello che non si vede, solo quello che nasce negli spazi vuoti tra due attimi.
Mia zia mi prende le mani, ripercorre le linee sul mio palmo con l'indice e mi dice che i miei antenati sono ancora lì, che camminano sopra i miei palmi, sopra i palmi di tutti i loro figli rom e niente e nessuno potrà mai strapparli via dalle nostre mani. "Hanno fatto un lungo viaggio, per arrivare sul tuo palmo, Nina. Hanno camminato tanto, djelem djelem", dice.
Io abbasso gli occhi, perché a noi come a tanti altri rom, quegli antenati sono stati strappati dalla violenza, dalla fame, dalle guerre. Hanno fatto un lungo viaggio, per arrivare sul tuo palmo, djelem djelem.
A volte siamo la fine del dito che puntate, il capolinea ideale di un cielo disfatto.Una briciola di rabbia da nascondere sotto il tappeto della società, ai margini e nelle periferie, dove nessuno può vederla.
A volte siamo i personaggi che ci cucite addosso, gli indovini, i ladri, gli assassini romantici e scalzi dei vostri libri indie, dei vostri brand "bohemien", del vostro feed su Instagram.
A volte siamo una sagoma, un ventre aperto a cui attingere senza sosta per farci quello che più vi aggrada. Un giorno i criminali, l'altro giorno i figli del vento, i nomadi d'Europa.
Se chiudo gli occhi, però, se taglio gli angoli dei ricordi come carta di giornale,non è questa la voce che sento, non è questa la gente che vedo.
Se chiudo gli occhi ho nella testa il profumo della paprika dolce che mettiamo nella "zumì", nella minestra, quando c'è il sole. I rami di lavanda stesi a seccare sulle porte delle kampine. La vernice d'oro con cui ricoprire gli stipiti perché non vengano gli spiriti a imbiancare i capelli. Due gocce di vetro appese al centro del soffitto, perché il loro suono ricordi a Devel, a Dio, che noi siamo vivi, che noi esistiamo. Una musica dolce con gli occhi tagliati male perché nessuna canzone può cantare in prigione e noi rom siamo in prigione da quando siamo nati. Se chiudo gli occhi, vedo tante cose e poi non vedo niente. La zia Ludmila che cuce un orlo di gonna e intanto dice sottovoce:"Un giorno passerà." Mio nonno che conta i raggi del sole nella sua bussola di quarzo e poi li chiude lì, in attesa di qualcosa che quando è morto ancora doveva arrivare. Vedo il vento nei capelli e tra le gonne, un fuoco alto che si accende soltanto la sera, soltanto per ballare.Vedo i cavalli bianchi al funerale di mio zio, e l'acqua del fiume con cui mia zia gli ha bagnato i capelli e le labbra, prima di lasciarlo andare. La barba lasciata crescere nel lutto, i capelli raccolti nel "dikhlo". nel copricapo, nero. Un'armonica che segna le ore soltanto quando è ora di scappare.
Gli slogan, la propaganda. Gli sgomberi.
La professoressa che mi dice:"Voi rubate per cultura." Gli sguardi quando indossiamo gli abiti tradizionali.
Le parole,soprattutto le parole.
Mia cugina di 5 anni che mi chiede perché, perché e io non so rispondere. Non lo so il perché, le dico. Lei raccoglie un soffione e lo agita nel cielo. Dice che noi siamo come i suoi petali, voliamo tutti via e un giorno ci ritroveremo.
Se chiudo gli occhi è la voce del mio sangue, la mia croce e la mia benedizione. È ciò che sono, i passi svelti alle frontiere del mondo da cui sono nata.
Se chiudo gli occhi mia zia non sta piangendo nella penombra, se chiudo gli occhi non le hanno mai sputato per strada, non l'hanno mai costretta a vivere nella miseria, non l'hanno mai picchiata perché rom.
Se chiudo gli occhi vedo tutte le mie madri ballare sul mio palmo, sussurrarmi con un filo di voce:"La vita è la nostra vendetta, il vento non si ferma."
Abbiamo fatto un lungo viaggio.
Djelem djelem.

Di Morena Pedriali.